Wednesday, August 25, 2010

ATTILA FLAGELLO DI DIO



"Mi faresti un favore grande ... grande ... chessò ... quanto una casa ?" non è una domanda, anche se può sembrare, ma un ordine perentorio a cui segue una malcelata, infida e sottintesa minaccia del tipo "Se mi dici no giuro che ...".
"Dai su! ti prego! si tratta di sei giorni, meno di una settimana!" è l'espressione pietosa che segue alla prima richiesta.
"Non saprei come altro fare e poi ... so che in fondo in fondo piace anche a te!"
"Avanti - dico io - spara! che ti serve?"
"Attila!" dice il mio amico. Solo tre sillabe: At-ti-la.
So di chi parla e già capisco cosa vuole.

Attila è un gatto soriano, il suo gatto. Un felino di sei chili, grigio e striato, con un chilo di unghie affilate. Dove passa lui non resistono tende, piangono fodere di divani e gridano vendetta le poltrone.
Chi lo conosce perde la fede in Dio.
Attila è un'arma di distruzione di massa.

"Ma non se ne parla proprio!" dico io "ma per carità!"
"Guarda! ti dò le chiavi di casa. Una volta al giorno ti fai vedere, gli dai una bustina di cibo, un po' d'acqua e se puoi gli cambierai la lettiera. Nient'altro. Pochi minuti al giorno ... per sei giorni!"
"Ma porcaput..." è l'imprecazione che mi si strozza in gola.
"Si? si? e dai! si?". Accenno un si con il capo e subito mi trovo in mano le chiavi dell'appartamento del mio amico.

Alle 18.00 circa raggiungo casa. Apro e Attila è già lì, appena dietro la porta. Mi si struscia sulla gamba e mi saluta con un fievolissimo "
miaooo" poi si alza sulle zampe posteriori e si affila le unghie sui miei jeans e sulle carni del mio polpaccio. Lo accarezzo e lui, il maledetto, si struscia alzando la sua coda.
Come da accordi gli preparo la cena, verso un po' d'acqua nella ciotola e, approfittando della sua attenzione per il cibo, vado via da casa.
Facile. E' stato facile dopo tutto.

L'indomani, un po' più tardi, verso le 20.00, ritorno in quella casa ed Attila mi accoglie miagolando più forte come a mostrare il suo disappunto per il mio ritardo. Corre verso la cucina ed incomincia a girarmi tra le gambe come se mi volesse far premura a servigli il pranzetto.
Velocemente ingoia il contenuto della bustina che qualche secondo prima avevo versato nella ciotola e con un balzo salta sul divano straiandosi vicino a me.
Gira la testa verso il basso e capisco che ha voglia di coccole.
Gli gratto la gola ed inavvertitamente scendo delicatamente verso la pancia. La mia mano viene bloccata dalle zampe e dalle unghie anteriori mentre le posteriori con una serie di due-tre strattoni mi graffiano tutto il braccio interno. La sensazione è la stessa di aver toccato un filo elettrico scoperto. Una scossa secca ti attraversa il corpo e dall'interno di esso si eleva al cielo una imprecazione quasi simile ad una bestemmia.
Ma Attila rimane lì a testa eretta e straiato su di un fianco sul "suo" divano.
Mi avvicino alla porta di ingresso e vado via. Ne ho avuto troppo e per oggi può anche bastare.

"Ah! se sapesse! Lei non mi crederà! Ma stanotte ... Oh mio Dio! Stanotte! Non siamo riusciti a chiudere occhio!" mi dice la signora vicina di casa del mio amico sentendomi aprire la porta e venendomi incontro.
"Buongiorno signora! Cos'è successo?" chiedo.
"Il gattino, il gattino del suo amico, ha miagolato per tutta la notte! Poverino si sente solo! Faccia qualcosa! Lo faccia anche per me. Sa! Sono anziana, dormo poco la notte e per quel po' sono stata svegliata da quel miagolio .... straziante! Veramente straziante!" Mi dice la signora e con questa sua richiesta ermetica e sibillina mi fa capire di prendermi più cura del "gattino" anzi di prendermi proprio il "gattino" e portarlo via da quella casa e possibilmente non ritornare più.
"Ma certo signora!" dico io ed aggiungo "Lo porterò con me oggi stesso! Contenta?"

Attila sembra aver capito il programma e mi gira attorno strusciandosi ancor più di prima. Lo prendo in braccio e dopo aver aperto la portiera della mia auto lo adagio sul sedile. Il tempo di girare e lui si adagia per lungo sulla cappelliera.

Giunto a casa ho il tempo di fare scendere il gatto dalle mie braccia che subito, con un balzo leggero e silenzioso, salta su di un cuscino del divano. Socchiude gli occhi e incomincia a "ronfare". E' il nuovo padrone di casa in assoluto. Si muove con grazia, senza paura alcuna, con padronanza.
Passano gli ultimi tre giorni con il mio nuovo inquilino senza grossi traumi e senza eccessivi danni. Piange un cuscino squartato e soffre una tenda che avrei voluto cambiare già da tempo. Il dorso delle mie mani e le mie braccia portano i segni dell'affetto del "gattino" ma passeranno!

"Tieni! portatelo e non mi chiedere più favori simili!" dico al mio amico.
"Grazie, grazie ancora. Ma si è comportato veramente male? Scusami ancora." mi dice e dopo aver preso in braccio Attila va via.

Finalmente mi sono tolto di mezzo quel peso! Non ne potevo più! Ah.!!!.. finalmente solo! Solo! Troppo solo! Cerco con gli occhi Attila che è andato via. Lo riesco a vedere anche se non è più con me.
Riesco ancora a sentire il suo "
purr... purr..." a sentire la vicinanza ed il calore del suo pelo morbido.
Non c'è più. Finalmente. Ed io sono solo, tremendamente solo ed ho


NAUSEA

:-(

Friday, August 13, 2010

GENERAZIONE AL PLASMON


Quando vado a casa dei miei mi piace stare qualche minuto solo nella stanza che continua ad essere mia e rovistare fra le mie cose. Ogni oggetto continua a trovarsi nello stesso posto dove l'ho lasciato e anche se non ha alcun valore commerciale è per me importante. I ricordi riaffiorano sempre con dolcezza. Quest'anello in argento mi fu donato da una mia amica a cui volevo un bene più grande dell'amicizia e che non ebbi mai il coraggio di confessare. Questo giornalino invece lo ricevetti in dono da un mio compagno di classe prima di trasferirsi presso un'altra città.

Non mi piacciono i ricordi. Mi fanno stare male. I ricordi ti gridano quanto tempo della tua vita è trascorso e quanto inutilmente. Ti urlano quello che avresti potuto essere, chi eri e chi realmente sei diventato e sei. Adesso non puoi più farci niente anche se credi che potresti far qualcosa. Non è bello vivere dei ricordi e non è bello averne.

Ma da dentro un cassetto dello stesso mobile ecco che intravedo qualcosa
di nuovo; una foto della quarta classe elementare da me frequentata presso l'Istituto Salesiani della mia città. 23 bambini dentro un'aula, posti su tre righe, i più alti dietro ed i più bassi seduti o in ginocchio, tutti con un grembiulino nero, con lo stesso collettino bianco e con lo stesso fiocco grigio per i maschietti e grigio chiaro per le femminucce. A dire il vero i fiocchi erano blu e rosa ma la foto è in bianco e nero e quelle tonalità di grigio della foto conferiscono più uniformità.

Che strano, riesco a ricordare i miei compagni anche se non proprio i nomi di tutti. C'era Grattacielo, uno spilungone, il primo in alto a sinistra, e davanti a lui Ciccio, un ragazzotto grasso a cui la classe aveva dato proprio quel nome. Nel mezzo sorrideva Andrea e le suo orecchie a sventola guadagnavano una gran parte della carta della foto stessa. In prima fila sorrideva Giovanni a cui la poliomielite aveva dato un forte schiaffo del quale portava le conseguenze. Maria era la più piccola di statura e vicino a lei stava seduto Pierino con un occhio perennemente socchiuso per nascondere il suo strabismo di cui si vergognava. Dentone si chiamava così per una sua specialità immaginabile mentre l'Abissino prendeva il nomignolo più per i capelli crespi che per il colore della sua pelle scura tutto il contrario del Tedesco di un pallore cadaverico e dai capelli lisci e biondi.

Per una assurda coincidenza o casualità mi è capitato qualche giorno prima vedere una analoga foto di classe del figlio di un mio amico, La foto era a colori ed i vestiti dei bambini la rendevano ancora più colorata. Non si usano più i grembiulini e men che meno i fiocchi al collo. Alcuni dicono che ricordano troppo il truce ventennio fatto di uniformi e disciplina.
Tutto quei bambini sorridevano al fotografo mettendo in mostra, quasi tutti, un bell'apparecchio ortodontico. Tutti uguali, tutti belli, con piccole e trascurabili sfumature.

E' la nuova generazione tirata su con omogeneizzati e preparati alimentari per l'infanzia.
E' la nuova generazione che scoppia di salute, ipervaccinata contro tutto e a copertura antibiotica per tutto. Penso che dove non riesce il grembiulino ed il fiocco ci pensa Plasmon a rendere uniformi i bambini ma questa è una mia opinione personale come mia rimane la


NAUSEA
:-(


Saturday, August 07, 2010

GENTE COSI'

Ormai da qualche anno vivo, in affitto, in un palazzo nobiliare antico. La nobiltà di quest'immobile è visibile all'ingresso dove una enorme aquila, credo in gesso, sovrasta, all'interno, il portone mentre una vetrata colorata, posta di fronte ad esso, limita l'accesso a quello che nei tempi scorsi sarebbe dovuto essere un giardinetto mentre oggi è il deposito di ingombranti serbatoi d'acqua e di una rumorosissima autoclave. La nobiltà decaduta si apprezza anche dalla polvere che incipria gli stucchi delle scale, ne oscura le lampade e dai mattoni del mio piccolo appartamento che si staccano con maggiore frequenza.

All'esterno dello stabile vi sono dei negozi, alcuni dei quali, ultimamente con maggiore frequenza, cambiano i proprietari delle licenze e le categorie merceologiche mentre il più piccolo di questi espone con fierezza un'insegna sull'ingresso, in lamiera con una scritta in corsivo verde scuro su sfondo crema; F.lli Grimaldi - Sartoria dal 1926.

Il vecchio sig. Grimaldi lo trovo ogni giorno seduto su di una umile sedia vicino alla porta, chino su qualche stoffa a cucire ed appoggia un piede su di uno sgabello che serve da banchetto per i "ferri" del mestiere: matassine di filo, una forbice, un gessetto, un ditale e piccoli altri oggetti. L'altro fratello, ho saputo, è deceduto già da qualche anno ed altre due persone, un ragazzo ed un uomo quarantenne lo aiutano ad andare avanti con il lavoro.

Il signor Grimaldi è una brava persona e mi piace scambiare qualche parola con lui.

"Come va, signor Grimaldi?" chiedo dopo averlo salutato. "Bene ma ... potrebbe andare meglio o ... forse non andrà mai meglio di così!" mi risponde storcendo un po' la bocca.

"La crisi, vero?" chiedo con quel po' di retorica e "No ... non è crisi. Anzi , a dire il vero, non ho mai accusato la crisi in questo settore. Ma si accomodi. Prenda quella sedia e si sieda. Qui, vicino a me! Scambiamo due chiacchiere" .

"Vede! Ho il negozio pieno di buste di negozi di abbigliamento di una gran parte della città. " dice. "Bene! No?" chiedo pur sapendo che proprio in quelle buste sta l'origine della smorfia al viso del signor Grimaldi. "Si, certo che si ma ... si tratta di lavori semplici, di routine. A questi debbo accorciare i pantaloni e stringere qualche abito, mentre a quelli debbo cambiare i bottoni o aprire qualche asola. Tutti lavori così, senza interesse, senza gioia. Lo sa? si deve lavorare anche per la gioia oltre che per il denaro. Anzi..." e si interrompe con la stessa smorfia al volto di prima.
"Anzi ?" chiedo per sentirne il ragionamento. Il vecchio sarto appoggia ciò a cui lavorava sulle gambe, si toglie gli occhiali e ricordando i tempi andati dice: "Una volta si lavorava per poco e quel poco sembrava moltissimo. Eravamo tutti povera gente ed il sarto serviva a nascondere la povertà. Quante volte ho "girato" cappotti e giacche! e certe volte l'interno era più logoro della parte in superfice ! Ricordo anche quando con Emilio, mio fratello, prendevamo le misure di qualche abito da produrre per il matrimonio del cliente. Sempre con qualche mezza taglia in più perchè, dopo il matrimonio, spuntava la pancetta. E quel cliente ritornava, dopo qualche anno, perchè si doveva fare qualche altro lavoro, sempre allo stesso abito. Dover dire ad un cliente che non c'era più nulla da fare per il suo vestito era come riferire una diagnosi cattiva, infausta. Ricordo anche il viso di quelle mamme che portavano i pantaloni nuovi dei loro figli bucati sulle ginocchia per una caduta durante una partita di calcio. Aspettavano in preghiera una nostra sentenza il più delle volte molto mite. Ma eravamo sarti e la sartoria era il nostro lavoro. Poi sono venuti i signori Marzotto, Lebole, Sanremo con i loro abiti da catena di montaggio. Tutti uguali, modesti sia nel taglio che nella qualità delle stoffe ma noi servivamo ancora, servivano i nostri ditali per modificare qualche mezza taglia o la lunghezza. Oggi non è più così! La qualità delle stoffe è pessima e gli stessi vestiti debbono servire solo per una stagione o due al massimo. Eppoi ci sono i nuovi tessuti supertecnologici. Li chiamano Hi Tech come la Ceramide o il Teflon oppure il Goratex. Per me sono solo plastica: impossibili da cucire, difficili da regolare, brutti. Pazienza!" e scuote piano la testa come per voiler concludere un discorso doloroso.

"Già! Vero!" dico e subito vengo interrotto "Oggi mi danno 10 euro per accorciare un pantalone e 20 per un piccolo lavoro su un abito di seta. Guadagno bene e non mi posso lamentare ma vuoi mettere?..."

Non è la stessa cosa. Non può essere la stessa cosa. Non potrà mai essere la stessa cosa. Tutto cambia e cambierà tranne che la

NAUSEA
:-)

Wednesday, August 04, 2010

INTERRACIAL


Anna è la mamma di un mio amico ma è come se fosse la mia. Anzi non è mia mamma ma è una mia amica perchè con gli amici si può discutere e comportarsi come con la propria madre non potresti fare.

Sempre attenta alle esigenze degli ospiti e, a volte, ossessivamente attenta a non far mancare un sorriso, una carezza ed un consiglio garbato e, perchè no, anche un rimprovero.

La conosco da sempre e per sempre la vorrò conoscere, le vorrò bene ed averla vicino.
"Buongiorno signora Anna. Come va?" è il mio saluto. "Ciao! Bene! Non proprio bene: benino ... quasi malaccio!" è la sua risposta che mi turba e mi preoccupa. "Che è successo? - chiedo - stai male?" "No no no! ci mancherebbe anche questa. E' che ... scusami, ma non mi va di parlarne!"
Prende da un pacchetto una sigaretta, la sta per accendere dalla parte del filtro, la rigira tra le mani ancora spenta e la ripone nel pacchetto.

"Vuoi un caffe.?" chiede con un sorriso falso come una moneta da tre euro. "Ma si! Così ci calmiamo un pochino! Che ne dici? Mi fai compagnia?" "Ma certo" dice lei e subito dopo porta a tavola una caffettiera e due tazze.
Vuole parlare, lo sento, vuole gridare e sbattere i pugni sul tavolo o in faccia a qualcuno, ha bisogno di dire quel che le rovina lo stomaco. "Che succede?" le chiedo con un tono più energico. "Marina. La mia disgrazia si chiama Marina. Non doveva farmi questo!".

Marina è la figlia venticinquenne, carina, studentessa e lavoratrice, per non pesare sulla famiglia. Una brava ragazza! Un carattere dolce e spigoloso al tempo stesso.
"Perchè disgrazia, cosa ha combinato?"
"Ha un ragazzo!" dice lei "un bravo ragazzo, nulla da dire, serio, simpatico. Ha una laurea e conosce anche tre lingue. Ma ..."
"Vabbè! Ma ti devi pure convincere che Marina ha 25 anni e doveva pur succedere!" accenno in risposta. "No, no. Non puoi capire! Lui è uno straniero, è un senegalese, o liberiano o avoriano non so meglio dire. Per me sono tutti gli stessi". "Cioè? ... Nero?" dico io.

China il capo a far intendere un si ma aggiunge anche un sospiro profondo, agitato e muove le mani come a voler aggiungere qualcosa che non vuole uscirle dagli intestini e le si blocca in petto.

"Ma dai! Su! Non sarà mica Barbablu o che so io! Credo che sarà anche un giovane simpatico conoscendo il carattere di tua figlia. Suvvia! Non è mica l'uomo nero? " e mi accorgo solo dopo averla detta di aver commesso una terribbile gaffe che, per fortuna, viene accolta con un sorriso da Anna.
"Chissà! A me questa storia non piace!" dice lei. "Ma già lo conosci?" chiedo.
"No no no, ma vorrei anche conoscerlo e parlargli. Per vedere che pasta d'uomo è. Ed inoltre ... lasciamo perdere và!"
"Lasciamo perdere cosa?" chiedo ancora.
"Mi sembra che sia anche ... anche!!!"
"Anche?" allungando la sua risposta.
"Musulmano! Non praticante, non fondamentalista ma musulmano. Ecco! E te l'ho detta tutta!" e finalmente respira profondamente come a volere saziare una fame d'aria.

"Beh! effettivamente! avere un tizio per casa che, ... per cinque volte al giorno, ... si stende per terra e ti mostra .... il culo in preghiera non è, ... come dire, proprio il massimo ma ... !!!" Non so cos'altro aggiungere ma sembra che quella mia espressione abbia allietato ancor più Anna che scoppia a ridere.

Abbiamo finito di bere la prima tazzina di caffè ma ne abbiamo bisogno di un'altra e questa volta corretta con della grappa. Molta grappa. "Allah akbar!" è il mio latrato alzando la tazzina. "Prosit!" risponde Anna sorridendo ancora.

Abbiamo la stessa sensazione, la stessa

NAUSEA
:-(